domenica 19 novembre 2017
LE NOSTRE INIZIATIVE: Piazza Brigata Maiella
martedì 3 ottobre 2017
Giardino botanico di Palazzo Genova Rulli
domenica 1 ottobre 2017
Passione nel volontariato
domenica 24 settembre 2017
Premio Nazionale Histonium
Si è svolta il 23 settembre 2017, presso l'Aula Magna del Polo Liceale
"R. Mattioli" di Vasto, istituto diretto dalla prof.ssa Maria Grazia Angelini,
alla presenza di personalità del mondo politico e culturale delle varie regioni d'Italia, la cerimonia della XXXII Edizione del Premio Nazionale Histonium.
L'associazione Vigili del Fuoco in congedo di Vasto ritira l'Attestato di benemerenza per l'impegno profuso nel promuovere e tramandare sul territorio eventi e iniziative culturali.
Si è svolto sabato 23 settembre 2017 dalle ore 18,30 a
Piazza Brigata Maiella a Vasto, dietro il Teatro Rossetti,un
evento veramente speciale. Un momento di festa per parlare della storia, delle tradizioni e della riqualificazione della piazza, per parlare anche di solidarietà e condivisione.
Con la regia di Patrizia Corvino e la sceneggiatura di Rosaria Spagnuolo, i ragazzi della Comunità C.E.C Papa Giovanni XXIII di San Lorenzo interpreteranno brevi monologhi per
raccontare la storia del pezzo di muro medioevale presente nella piazza. Dal Medioevo fino all'800 in quello che oggi è il parcheggio, c'era il chiostro del convento di Santo Spirito.
Una storia di monaci, di preghiera, ma anche di incendi, di riconversione dei luoghi.
L'evento è organizzato da tre associazioni di volontariato di Vasto:
la Ricoclaun, il Buco nel Tetto e i Vigili del Fuoco in congedo, insieme per il progetto "La Solidarietà non va in vacanza: l'unione fa la forza a fare bene", che con la
collaborazione del Centro Servizi del Volontariato di Chieti e il finanziamento della Tercas di Teramo, ha reso
possibile quest'estate una serie di attività per i ragazzi della Comunità C.E.C.
Papa Giovanni XXIII di San Lorenzo: dai laboratori di cake therapy con il maestro Antonio Argentieri, di cucina con Antonella Di Lello, di laboratori artistici con Ilaria Barbuto, il corso di teatro con la regista Patrizia Corvino, la riqualificazione della piazza Brigata Maiella con Antonio Ottaviano, le aiuole della piazza sono state impiantate di rosmarino, carrubo, corbezzolo, mirto,melograno, visciola, sorbo, lentisco, alloro, teocrium, juniperus, azzeruolo, limone, olivo e rose, per dare nuova vita alla piazza, che sarà custodita dall'associazione Vigili del Fuoco in Congedo.
Inoltre è stato svolto un reportage fotografico sulle attività svolte dai ragazzi del CEC e messe in mostra alla
piazza, il racconto fotografico è stato eseguito dal fotoillustratore Federico Dessardo anche socio volontario dei VVF in congedo.
I presidenti Rosaria Spagnuolo della Ricoclaun, Luciana Salvatorelli del "Buco nel tetto" e Antonio Ottaviano dei Vigili del Fuoco in Congedo,
tre associazioni di volontariato di Vasto che non hanno niente in comune se non la tenacia e la determinazione che li contraddistingue nelle loro attività specifiche, sono estremamente soddisfatti della sinergia e condivisione veramente speciale che si è creata con questo progetto, che ha cercato di dare una nuova riqualificazione professionale al gruppo di ragazzi ex detenuti della Comunità di San Lorenzo, coinvolgendo le risorse del territorio, perché "l'unione fa la forza a fare bene".
martedì 12 settembre 2017
Un manualetto di Don Romeo Rucci ritrovato
I cattolici e lo Stato italiano. Il 1922 e quel «Manualetto» devozionale di don Romeo Rucci
di Luigi Murolo
Ringrazio l’amico Remo Petrocelli per avermi segnalato l’esistenza di questo libretto devozionale pubblicato nel 1922 dall’allora parroco di S. Pietro R. R. (vale a dire, Romeo Rucci. Nome siglato, in quanto il sacerdote non si reputa autore, ma ordinatore e curatore dei materiali di fede e pietà religiosa in esso raccolti). Il «manualetto» – come viene definito – sembrerebbe rinviare al solo uso cultuale relativo all’inaugurazione della Cappella del Sacro Cuore (12 marzo 1922) voluta e realizzata dal canonico. Ho usato il condizionale per una ragione. Dietro questa scelta si coglie la forte natura ideologica che tale devozione assume in ambito cattolico (non dimentichiamo che, l’anno precedente [1921], padre Agostino Gemelli fonda a Milano la stessa Università cattolica intitolata al Sacro Cuore). E cioè la sottomissione dello stato alla chiesa che il pontefice Leone XIII aveva rivendicato con la lettera enciclica Annum sacrum del 25 maggio 1899:
[…] Questa universale e solenne testimonianza di onore e di pietà è pienamente dovuta a Gesù Cristo proprio perché re e signore di tutte le cose. La sua autorità infatti non si estende solo ai popoli che professano la fede cattolica e a coloro che, validamente battezzati, appartengono di diritto alla chiesa (anche se errori dottrinali li tengono lontani da essa o dissensi hanno infranto i vincoli della carità), ma abbraccia anche tutti coloro che sono privi della fede cristiana. […] Questa universale e solenne testimonianza di onore e di pietà è pienamente dovuta a Gesù Cristo proprio perché re e signore di tutte le cose. La sua autorità infatti non si estende solo ai popoli che professano la fede cattolica e a coloro che, validamente battezzati, appartengono di diritto alla chiesa (anche se errori dottrinali li tengono lontani da essa o dissensi hanno infranto i vincoli della carità), ma abbraccia anche tutti coloro che sono privi della fede cristiana. Ecco perché tutta l’umanità è realmente sotto il potere di Gesù Cristo. Infatti colui che è il Figlio unigenito del Padre e ha in comune con lui la stessa natura, “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3), ha necessariamente tutto in comune con il Padre e quindi il pieno potere su tutte le cose. Questa è la ragione perché il Figlio di Dio, per bocca del profeta, può affermare: “Sono stato costituito sovrano su Sion, suo monte santo. Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio; io oggi ti ho generato. Chiedi a me e ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra” (Sal 2,6-8). Con queste parole egli dichiara di aver ricevuto da Dio il potere non solo su tutta la chiesa, raffigurata in Sion, ma anche su tutto il resto della terra, fin dove si estendono i suoi confini. Il fondamento poi di questo potere universale è chiaramente espresso in quelle parole: “Tu sei mio Figlio”. Per il fatto stesso di essere il figlio del re di tutte le cose, è anche erede del suo potere universale. Per questo il salmista continua con le parole: “Ti darò in possesso le genti”. Simili a queste sono le parole dell’apostolo Paolo: “L’ha costituito erede di tutte le cose”(Eb 1,2). […] Ma ciò avverrà solo se tutti gli uomini riconosceranno liberamente il potere di Cristo e a lui si sottometteranno […].
La consacrazione dell’umanità al “Sacro Cuore” rivendica il pieno potere temporale (e in tutte le sue implicazioni geopolitiche) della Chiesa sul mondo. Quella temporalità che l’ingresso dei bersaglieri a Roma il 20 settembre 1870 aveva spezzato e che vedeva la stessa Legge delle guarentigie (13 maggio 1871) fermamente respinta da Pio IX. Non solo. Ma il “Sacro Cuore” di Leone XIII veniva a concretizzare in forma religiosa e devozionale ciò che la Ubi nos di Pio IX (15 maggio 1871) aveva confermato sul piano dei rapporti politico-statuali. E cioè, che il potere spirituale non poteva essere considerato disgiuntamente da quello temporale.
Di grande interesse storico, dunque, il «manualetto» per anime pie curato da don Romeo Rucci. Si presenta come la testimonianza più eloquente del modo in cui, sul versante locale, i parroci si sforzino di educare i laici alla pratica della confessionalità attiva. Della chiesa che si fa stato e che occupa i gangli della stessa cultura con l’istituzione di una propria università (la Cattolica, per l’appunto) destinata alla formazione del laicato. Di quel «qualcosa», cioè, che, di lì a poco (11 febbraio 1929), tra pedagogia e azione, sarebbe riuscito a produrre quei Patti lateranensi restauratori della temporalità ecclesiastica. Del resto, non era stato forse Benedetto XV – pontefice tra il 1914 e il 1922 – a abrogare nel 1919 il non expedit e a favorire la nascita del Partito popolare?
Non vi sono dubbi. Il “Sacro Cuore” di don Romeo era pienamente inscritto in questa tradizione.
sabato 8 luglio 2017
Mostra Fotografica :Tesori segreti e Chiese di Vasto sala Michelangelo
venerdì 7 luglio 2017
Antichi grani d'Abruzzo
negli atti notarili stipulati presso la Fiera di Lanciano già nel 1500 e poi Michele Torcia, nel suo "Pel paese de' Peligni" del 1793, racconta come il pane a Popoli esce dal grano solino e ne parla come di uno dei migliori del Regno di Napoli. Nel 1926 il prof. Luigi Diaferia della Cattedra di Agricoltura Ambulante di Vasto migliorò due tipologie di semi di questa varietà e li mise a frutto nell'area di Bufalara prima incolta e gentilmente concessa da Carlo D'Avalos per sperimentazione,-la cosiddetta "Battaglia del Grano"--Queste varietà presero il nome "Solina Diaferia" ed ebbero buon riscontro di vendite sui cataloghi di sementi nazionali fino agli anni '40.
mercoledì 5 luglio 2017
l'uva di VASTO ( Murolo )
PER UNA CULTIVAR AUTOCTONA DI UVA VASTESE: LA «SAN FRANCESCO»
di Luigi Murolo
0. Operare nel contesto del prodotto topico si tratta, laddove possibile, di fare i conti con la storia delle biodiversità alimentari per tentare il recupero delle specie in estinzione. La cosiddetta Uva del Vasto costituisce l’argomento del presente intervento. Grazie alle celeberrime illustrazioni di Giorgio Gallesio per la Pomona Italiana ossia Trattato degli alberi fruttiferi (Pisa 1817-1839) [fig. 1] oppure alla ceroplastica in alabastro di Francesco Garnier Valletti che ho fotografato nei musei degli Istituti agrari di Firenze e di Todi [fig. 2] è possibile avere memoria iconografica di alcune specie oggi scomparse.
Ma se è vero che attraverso il modellismo pomologico la produzione artistica ha salvato in copia (divenuta originale) l’autentico perduto oggi occorre ricorrere all’Unesco perché il patrimonio culturale immateriale possa trovare la necessaria conservazione. Per la prima volta, nel 2017, un pezzo d’Abruzzo è diventato patrimonio culturale dell’umanità: sto parlando dei cinque nuclei di antiche faggete ricadenti in un’area di 937 ha. comprese tra i comuni di Lecce nei Marsi (Moricento), Opi (ValFondillo-Valle Iancino), Pescasseroli (Coppo del Principe, Coppo del Morto), Villavallelonga (Valle Cervara). Sono diventati patrimonio mondiale nel contesto delle Faggete primordiali dei faggi dei Carpazi e di altre regioni d’Europa. E se è vero che non tutto è riconducibile al capitale humanis generi (che non è il titolo di un’enciclica), a quello di una comunità, sì! In tal senso, se grazie a Slow Food è stata garantita la tutela dei pomodori mezzitempi di Vasto, anche la sua uva autoctona, la san Francesco, esige la medesima forza di presidio. Un’ associazione come Italia Nostra del Vastese può certamente svolgere un’azione propositiva. Le pagine che seguono vogliono assolvere a tale funzione.
1. L’anno è il 1839. In una memoria per gli «Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania» (tip. Di Riggio, 1839), l’abate Giovacchino Geremia pubblica una memoria dal lungo titolo: Continuazione del Vertunno etneo ovvero staifulegrafia storia della varietà delle varietà delle uve che trovansi nel d’intorno dell’Etna. A essa fa seguire un’Appendice al Vertunno etneo. Confronto tra le uve etnee e quelle di Napoli con talune dal Gallesio descritte in cui afferma: «Uva del Vasto di eccellente qualità, somiglia alla Imperiale bianca» (p. 66). Si tratta (per quanto ne sappia) della prima attestazione di questa cultivar con tale nome. Quasi non bastasse, per lo stesso prelato, il vitigno in questione diventa riferimento di un altro: «[Uva] Marocca quasi somigliante a quella del Vasto, ma più rotonda e con acino pingue, a differenza della prima che ha bacche assai grosse» (p. 68)
Cinque anni più tardi – nel 1844 –, il botanico napoletano Guglielmo Gasparrini propone la seguente descrizione ampelografica per l’Uva del Vasto da tavola (coltivata, ovviamente, a Napoli): «grappoli grandi, acini grossi, duracini, carnosi, bianchi. Comincia a maturare nella fine di Agosto e si mantiene per l’inverno. Si coltiva in parecchi giardini» (in Su le viti e le vigne del Distretto di Napoli, in «Annali Civili del Regno», fasc. LXIX, maggio/giugno 1844, p. 2). Considera, tra l’altro, questa cultivar con altre facenti parte di un contesto di qualità: «Uva del Vasto, Sanginella nera e bianca, Inzolia, Catalanesca, Uva rosa, Uva pruna, Falanchina, Marrocca, Zuccherina, Cannamele, Persana, Salamanna, Moscadella, Barletta» (in Ibid., p. 4). Quasi non bastasse, Guglielmo Gasparrini, l’anno successivo, torna sullo stesso tema in un altro scritto con queste parole: «Le migliori uve mangerecce per la loro qualità sono la moscadella, una varietà della Salamanna domandata volgarmente moscadellona, la sanginella che ci pare non si trovi in altre parti d’Italia, la pignola detta glianica dai Napoletani; seguitano la corniola, la catalanesca, la groia, quella detta del Vasto, ed altre» (in Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del Regno di Napoli di qua dal Faro, Napoli, Tip. Del Filialtre Sebezia, 1845, pp. 29-30).
Ora, come già detto, per rendere più sicura l’identificazione della cultivar in Sicilia (forse perché rara nell’Isola), l’abate Giovacchino Geremia parla di una somiglianza dell’Uva del Vasto con l’Imperiale bianca. Ma per sapere che cosa fosse quest’ultima, dobbiamo ricorrere a un trattato agronomico siciliano del Seicento che scioglie definitivamente il problema. Sto parlando dell’ Hortus catholicus di Francesco Cuppari pubblicato a Napoli (Neapoli, ap. Franciscum Benzi, 1696. Aggiungo che la copia consultata proviene dalla Biblioteca di Baviera). L’autore ordina alfabeticamente la materia. E solo quando discute dei singoli vitigni precisa con stile ampelografico: «Vitis mediocribus vinaceis, durulis, oblongis, candido fulvis, sapidis. Vulgo Inzolia vranca. Eadem racemo et granis majoribus, flavescentibus, sapidioribus. Vulgo Inzolia Impiriali ò di Napuli. Eadem maiori, nigro fructu, suaui in ore, ac liquabili. Vulgo Inzolia nigra» (in Ibid. p. 232). Il che vuol dire: «Vite con mediocri vinacce, piuttosto dure, rosso bianche, sapide. Dal volgo chiamata Inzolia vranca [bianca]. Dallo stesso racemo [si trova] ma con acini più grandi, biondo rossastri e più sapidi [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia Imperiale o di Napoli. E da un racemo più grande, con acini neri, soave e liquabile in bocca [ciò che è chiamata] dal volgo Inzolia nera». Grazie alla mediazione ampelografica degli antichi botanici siciliani, sappiamo che l’Uva del Vasto risulta simile alla cultivar dell’Inzolia . Essendo, pertanto, una varietà dell’Inzolia, l’Uva del Vasto dovrebbe essere classificata come Ansonica (nome ufficiale delle Inzolie) nel Catalogo nazionale delle varietà ad uve da vino [fig. 3].
Ma se fino a questo momento l’interesse è stato centrato sulla cultivar, occorre adesso parlare della sua topicità, del suo luogo di origine. In effetti, non credo che gli agronomi ottocenteschi si riferissero a Vasto, la città che, in quel tempo, il vulgo chiamava Lu Huàštǝ Mammónǝ. In realtà, per i napoletani e per gli stessi siciliani, Il Vasto era un quartiere metropolitano della città partenopea (abitato dagli Avalos). Ciò lo si comprende dal fatto che gli scritti del Gasparrini parlano delle uve coltivate nel distretto di Napoli, non nel Regno. L’unica testimonianza che connette l’Uva del Vasto con l’omonima città è dovuta a Luigi Marchesani che identifica quella cultivar con l’altra in loco chiamata Uva San Francesco. Nei fatti, è lo stesso medico-umanista a precisare: «[…] è la nostra trapiantata ne’ dintorni di Napoli, che fornisce alla Capitale la dolcissima grossa e bianca uva di S. Francesco, venduta quivi col nome di uva del Vasto» (Storia di Vasto città in Apruzzo Citeriore, Napoli, Torchi dell’Osservatore medico, 1838/41, p. 161). La topicità del vitigno è basata solo su questo passo (di per sé rilevante). A ben vedere, lo stesso memorialista vastese Nicola Alfonso Viti (1600-1649) nulla dice sulla denominazione della cultivar. Va osservato però che, quando lo storico seicentesco scrive, segnala un vitigno solo da poco introdotto che produce un’uva particolare (grappoli e acini). Così facendo, non solo consente di fissare nel corso del Cinquecento un’importante attestazione della pianta nella città (la più antica si rileva in un protocollo di notar Robio del 3 dicembre 1547) oltre che di indicare tanto la località di origine quanto lo stesso nome del produttore: «Tra le sorte d’Uve se ne vede una, che fa grappoli maravigliosi crescendo l’acino alla forma d’un ovo di colomba nella Vigna di Stefano del Monte hoggi posseduta dagl’Eredi di Gio: Battista Ricci nella contrada di Santo Biagio» (Memoria dell’Antichità del Vasto, in L. Marchesani, Esposizione degli oggetti raccolti nel Gabinetto archeologico comunale del Vasto, Chieti, Tip. Vella, 1857, fasc. III, p. 29). Aggiungo. Il riferimento più datato nel tempo su di un del Monte vastese – Augustino, marito di Vicenzina de Thomaso e padre di Io.Cola – l’ho rinvenuto sul Liber baptizatorum Ecclesiae Sanctae Mariae Maioris 1565-1598 al dì 10 maggio 1573 (c. 33a).
Ora, stando a quanto scrive Giovanni Dalmasso (con Marescalchi) nella sua monumentale (in tre volumi) Storia della vite e del vino in Italia, Milano, Unione Italiana Vini, 1931, 1933, 1937), la già citata Inzolia imperiale ha la sua corrispettiva in Abruzzo con la cosiddetta Ortonese (in dialetto pruvulónǝ, pergolone). Infatti, l’abate Geremia parlava di somiglianza, non di identità tra uva del Vasto e Inzolia imperiale. Ciò vuol dire che per la san Francesco si parla di varietà autoctona rispetto a una famiglia. Da questo punto di vista non è nemmeno possibile ipotizzare relazioni tra il prodotto vastese con i vitigni attestati negli Statuti di Lanciano del 1592*. Il capitolo 87 del documento, pur proponendo la nomenclatura di ben cinque qualità commerciate nel sec. XVI, non consente di individuare rapporti con eventuali Inzolie dell’epoca: «Item è posto et ordinato che non sia persona alcuna tanto cittadina quanto forastiera, tanto di Feria tanto d’altro tempo, ardisca né presuma vendere altra sorte d’uva che di Moscatello pergolo uva Pane uva Donnola Precoccio et Malvasia senza licentia del Sindico, il quale sia tenuta darla gratis et che riconosca la qualità delle persone, acciò sappia d’onde l’hanno havuta sotto pena, sotto pena di un carlino per chi contrafara» [fig. 4].
Dico subito che non entro nel merito di questi vitigni su cui tornerò in altra occasione. Ciò che, al contrario, interessa è l’annotazione per cui, tra i tanti vitigni esistenti, la città di Lanciano ne ammette solo cinque, (Moscatello Pergolo, Uva Pane, Uva donnola, Precoccio, Malvasia), escludendo gli altri. Ecco allora l’aspetto rilevante. Lo statuto in questione lega alla sola commercializzazione del prodotto l’indicazione filogenetica del vitigno. Sappiamo, inoltre, che, sulla base del Libro degli affitti (1747) della Camera Baronale di Castiglione alla Pescara (oggi a Casauria) si pagava l’affitto «per il Moscatello alle Coste di San Felice»; non sappiamo, però, se si tratta della stessa specie di quella menzionata a Lanciano. In buona sostanza, nell’un caso o nell’altro, va sempre ricordato che il moscatello, insieme con le altre cultivar menzionate in questo intervento, aprono a un tentativo di restituzione storica della biodiversità agricolo-commerciale della vite in Abruzzo.
Le cultivar di cui stiamo parlando sono state vinificate in passato. Anzi, sulla base dei protocolli del notaio vastese del Cinquecento Gio.Battista Robio stipulati tra contraenti del traffico interadriatico Vasto-costa Dalmata ho potuto ricostruire una breve classificazione valutativa sul gusto, circa l’antico vino commercializzato: «3 dicembre 1547, 6a ind. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 19 marzo 1548, 6a ind. / vini boni et clari; 5 aprile 1548, vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 21 luglio 1548, vini boni clari boni coloris meliorisque saporis; 12 Januarij 1551, vini boni clari et boni coloris ac saporis; 9 martij 1551 vini boni clari bonique coloris et saporis; Die 9 mensis mai 1551 vini boni clari. Ciò vuol dire che, rispetto a questi atti, il sommelier contemporaneo si troverà di fronte ai seguenti indicatori: (dal più complesso al più semplice) 1. vino bono chiaro del vasto alla mesura juxta de dicta terra bruschi e non dolci bono et merchatantesco; 2. vini boni meri clarique ac boni coloris et melioris saporis; 3. vini boni clari bonique coloris et saporis; 4. boni clari (per brusco – come profilato al punto 1 – si intende acidulo, aspro di sapore).
Occorre rilevare, tra l’altro, che la Carta dei Suoli della Regione Abruzzo scala 1:250000 (2006) individua, dal punto di vista pedologico, l’area di contrada San Biagio (originaria dell’uva del Vasto) come «superfici terrazzate sommitali ampie, reincise. Substrati costituiti da sedimenti ghiaioso-sabbiosi». Ciò implica che, sul piano agricolo, quei suoli costituiscono l’83% del totale, con il 54% destinato all’arborato (uliveti e vigne). Le stesse aree con le cultivar superstiti della San Francesco (dagli ultimi ortolani che la conoscono chiamata la francese) segnalatemi dall’amico produttore viti-vinicolo Domenico La Palombara sono localizzate alla Canale (molto importanti risulterebbero altre identificazioni), i cui terreni rispondono alla stessa classe pedologica. Le foto inviatemi da Domenico sono relative alla fase di invaiatura (III decade di luglio), in attesa delle maturazione (I decade di settembre) [figg. 5, 6].
E proprio qui, dall’invaiatura, mi auguro che possa iniziare un nuovo percorso per questo sconosciuto (ai più) «liquore di Dioniso».
*L’amico Giacomo De Crecchio di Lanciano mi ha fatto la cortesia di inviarmi le foto dei 192 capitoli degli Statuti che avevo consultato in anni lontani.
sabato 1 luglio 2017
Letture di Giuseppe Perrozzi, presso la Torre
martedì 6 giugno 2017
Ezra Pound e Cristina Rossetti
Appuntamenti di giugno 2017
sabato 3 giugno 2017
L'ITALIA LETTERARIA TRA VERISMO E DECADENTISMO
i due convolarono
a nozze a Messina lunedì 12 febbraio 1872 ma l'idillio durò poco... al
ritomo a Catania lo attendeva un pranzo di nozze «...triste, mal servito
sulla tavola apparecchiata senza cura, nella stanza di passaggio,...» e iconvitati
«...uomini seduti attorno alla tavola con il copricapo: due con il cappello,
uno con il fez e Mario con il berrettone di lana...» la delusione della vita coniugale, unita alle
limitazioni di spostamenti imposte dal geloso marito a Giselda furono causa di
un sùbito raffreddamento della passione. Così nel 1875 quando Mario, docente di
letteratura all'università e Giselda si
recarono a Firenze per le vacanze, il destino fece incontrare Mario
Rapisardi ed Eva Cattèrmole, la poetessa e fece riaccendere l'amore sopito tra
Giselda e G. Verga.II Rapisardi inviò il volume Ricordanze ad Eva Cattèrmole (che
scriveva con lo pseudonimo di Contessa Lara). La risposta della bionda poetessa colpì Mario, che dall'ammirazione passò
all'infatuazione, subito ricambiata dall'interlocutrice, cosicché nacque una relazione di lunga durata.Chiudiamo qui con una considerazione che suona come una domanda: ma le
donne di quell'epoca erano più sensibile alle parole?
Erano tutte come Rossana del Cirano? Signore
che leggerete il testo, nel vostro cuore avrete la risposta...sarete poi così
gentili da condividerla con noi "maschietti" ?
Silvano Muratore
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